4800 battute. Un numero, ecco cosa mi ci vuole per scattare un’istantanea degli ultimi 12 anni della mia vita. Una storia di cui non conosco né l’inizio né la fine, ma di cui ho vissuto e vivo intensamente ogni giorno con dolore, paura, rabbia, fatica, solitudine, curiosità, ostinazione. Facile perdersi in questo guazzabuglio di emozioni.
“Devo andare a fare un po’ di spesa” disse babbo mentre mettevo a posto quella che avevamo appena fatto. Il tempo si è dilatato in quel momento che si è cristallizzato nella mia memoria. Non ricordo dove riposi le mele che avevo in mano, ma ricordo molto bene la sensazione di una distanza incommensurabile anche se eravamo ad un metro. Non so dire con precisione quando quel processo abbia avuto inizio, 50 km di distanza e la cocciutaggine di due anziani mi hanno impedito di cogliere i primi segnali quotidiani. E mi sono trovata direttamente a decidere quanti scatoloni avrebbero occupato i ricordi della mia infanzia e della mia adolescenza, riempiendoli ad una velocità molto superiore a quella delle mie emozioni, che mi soffocavano la gola. “Questo è il momento più difficile”, mi raccontavo, ma intanto stavo tatuando il mio cuore. In maniera indelebile.
La malata di casa era sempre stata mamma, con il suo eterno male di vivere in un corpo pieno di acciacchi, che l’avevano confinata in uno spazio sempre più ristretto, alla fine il letto. Babbo era il motore di tutto: faceva la spesa, mandava avanti la casa, accudiva sua moglie. Ora non restava più nessuno. O meglio, restavo io, figlia unica di genitori non autosufficienti, come li definisce la USL. Ho cominciato a raccogliere la documentazione in 2 raccoglitori, blu per babbo e verde per mamma, ed ho continuato raccogliendo i miei pezzi ad ogni peggioramento della malattia. Alzheimer, demenza mista: che differenza fa per un familiare? E in effetti quando al mio arrivo li scorgevo in fondo al corridoio non faceva molta differenza che mamma fosse sulla sedia a rotelle e babbo in piedi che la spingeva. Cominciavo a sentire le urla appena si aprivano le porte dell’ascensore al primo piano dell’RSA, passavo velocemente davanti alle camere da cui provenivano, dando un’occhiata fugace alle persone nei letti con le sbarre. Mi fermavo incantata, invece, a guardare come gli operatori riuscissero a convincerli a fare colazione anche se non la volevano fare. Allora non immaginavo neppure lontanamente che sarebbe stato il mio futuro. Mi sembrava magia pura e, come Harry Potter, ci sono andata anch’io a scuola di magia, dieci anni e tre badanti più tardi. Il muro che ho dovuto attraversare per trovare il mio binario è fatto di rifiuto, disorientamento. Tornare alunna e sedermi in un banco mi ha fatta sentire accudita, ascoltata. “Assistente di base” c’è scritto sull’attestato, ad oggi il più importante. Prendere la laurea, la specializzazione, il perfezionamento, anche con una bimba piccola da crescere, è stata una giacchettata, in confronto. Dovevo solo studiare e organizzare i tempi, mica combattere con i fantasmi del mio passato, guardare negli occhi persone che non mi riconoscevano più e mi davano del lei, specchiarmi nelle loro paure. Dovevo cercare degli strumenti. I libri li ho comprati, come mia abitudine, ma per la prima volta era difficile aprirli, dentro c’era quello che volevo sapere ma che avevo paura di sapere, in una micidiale danza di emozioni contrastanti. Che fanno parte della
vita, come si sente sempre dire. Sì, ma lì era proprio la vita sconvolta: dall’eterno presente senza ieri e senza domani il passato remoto improvvisamente prende vita catapultandoti in una dimensione surreale affascinante e spiazzante. Come spiazzanti sono le emozioni che travolgono quando tutto questo con la stessa imprevedibilità viene a mancare. Le lacrime trattenute per anni scendono senza ritegno e dalla bocca esce quella parola divenuta impronunciabile: babbo. Ciao Babbo. Con la maiuscola. L’ho scritta, anche, sulle lettere che uscivano spontaneamente dalla penna perché potessi addormentarmi. Non c’era l’esasperazione, c’era la Persona, anche dopo sei anni e mezzo di caregiver a tempo pieno.
Difficile dire se mamma se ne sia resa conto, non ce l’ho la risposta alla domanda che tante persone mi hanno fatto. A volte chiama il suo nome, non ho ancora imparato a fare l’attrice per seguirla in quel delirio.
“Com’è brava lei”
“Grazie. Mi chiamo Anna”
Silenzio. Mi trito il cuore cercando di cogliere un’espressione diversa sul volto, un lampo negli occhi, un gesto. Il rumore metallico delle sbarre del letto interrompe il mio fantasticare.
4800 battute, 2 mesi. Questa la risoluzione della foto che ho scattato. Non è come per l’ultimo modello di cellulare, più alta è meglio è. Qui fa male. Come tenere tutto dentro.
Anna